IN PRIMIS LA
"PEACE RESEARCH"

Estratto dalla tesi di laurea in Psicologia "L' educazione alla pace nella società aperta"- Giugno 2004

La relazione clinica, di aiuto, ha senso se riusciamo a liberare le persone dal demone della guerra, della violenza sia essa strutturale che diretta. Allora i riferimenti teorici che guidano la mia azione non possono che essere tutti quegli esponenti, sociologhi, antropologhi, filantropi che hanno contribuito al corpus teorico che oggi sostanzia la “peace research”: Johan Galtung, Ira Chermus e, ovviamente, Ghandi.
 
Johan Galtung fondatore nel 1959 dell’ International Peace Research Institute di Oslo, ha offerto un contributo teorico rilevante nello studio delle dinamiche violente. La violenza si può manifestare a diversi livelli e si distingue in violenza diretta e violenza strutturale. La violenza diretta si manifesta come atto di deumanizzazione di un avversario in una relazione conflittuale.
 
L’azione distruttiva di un gesto violento si giustifica nel negare ad un avversario il suo diritto all’umanità, il suo diritto alla vita. È un gesto diretto in quanto si presenta come un evento prodotto da cause ed eventi precisi (guerra, tortura, uccisione, imprigionamento, repressione). A fianco di questa accezione di violenza, peraltro legata al senso comune, Galtung ne individua una seconda definita nel concetto di violenza strutturale. Il suo significato ha radici nelle situazioni di miseria, alienazione, ingiustizia e disuguaglianza sociale. Queste condizioni impediscono alle persone di soddisfare in modo equo i propri bisogni fondamentali. La violenza strutturale è connessa all’ organizzazione e alla struttura della società. Non c’è un momento preciso in cui si manifesti, ma è un processo che dura nel tempo. Viene esercitata indirettamente e non è necessariamente intenzionale.
 
Fondamentale è anche il contributo di Ghandi, il padre e fondatore del metodo della non-violenza.
 
Analizzando il significato del termine satyagraha (metodo della non violenza ghandiana) troviamo le sue radici etiche, filosofiche e religiose. Il termine satyagraha è composto da due parole indiane: satya che significa a seconda delle diverse accezioni Dio, verità o amore e graha a cui può essere ricondotto il termine fermezza, forza o decisione. Letteralmente satyagraha significa quindi ricerca ferma di Dio. Il satyagraha non rappresenta quindi soltanto una pratica di interazione sociale particolare, ma si rifà ad un principio etico filosofico che guida la vita dell’uomo. Secondo Ghandi quindi ogni uomo deve coltivare, libero da imposizioni politiche, questo principio nella vita di tutti i giorni. Ogni azione deve rispettare la necessità di ricerca della verità e dell’amore nel rispetto del prossimo come espressione della verità di Dio.
 
Nell’opera di Ghandi non esiste una prefigurazione di una società pacifica, proprio perché la società pacifica si realizza nella vita di ogni individuo ispirato dalla continua ricerca della verità. Portando il discorso su un piano psicologico si potrebbe dire che il sé individuale corrisponde al sé universale poichè il concetto fondante è l’unità di tutti gli esseri viventi, comprese le piante e gli animali. Continuando su questo piano il vissuto intraindividuale condiziona le relazioni interpersonali: Ghandi suggerisce che la ricerca della pace sociale è un aspetto secondario rispetto alla ricerca di una pace interiore. La pace sociale si realizzerà in linea teorica quando ogni uomo vivrà nella ricerca della verità. La nonviolenza con la sua scelta unilaterale di rinuncia alla distruttività si pone come pensiero aperto in quanto le sue argomentazioni definiscono uno scenario d’azione che resta razionalmente aperto a revisioni.
 
Cercare di definire oggettivamente il concetto di pace è un compito arduo per la sua natura strettamente “mentale”. La pace non è un “oggetto esterno” che troviamo nel mondo e che ci limitiamo a descrivere. Tuttavia il contributo della sociologia e dell’antropologia ci permette di cogliere il significato di pace nell’esplorazione e nell’analisi dell’immaginario collettivo peculiare di una cultura.
 
Galtung sostiene l’esistenza di uno stretto legame tra il pensiero sulla pace e la situazione geo-politica del paese/regione che lo genera. La pax romana è il concetto dominante nel mondo occidentale, con una connotazione di ordine interno e stabilità socio-politica.
 
La guerra fredda fu vista dagli Stati Uniti come un gigantesco sforzo contro l’Unione Sovietica e il comunismo mondiale che impersonificavano una vasta serie di esempi dei veri nemici: instabilità, imprevedibilità, disordine. Finita la guerra fredda la politica estera statunitense si basò sul concetto di nuovo ordine mondiale (1989), ovvero la necessità di creare un assetto geopolitico globale che escludesse la possibilità di una nuova minaccia per la pace e per l’ordine sociale a garanzia dallo sviluppo economico capitalista.
 
A partire da questa premessa è possibile sostenere che nella cultura occidentale, ed in particolare in quella euro-americana, prevale un concetto di pace intesa come risultato di un ordine sociale prevedibile.
 
Nel linguaggio comune l’ordine è prevalentemente caricato di un significato positivo, mentre il disordine ha un’accezione più negativa, ma entrambi sono percepiti soprattutto su un piano soggettivo, mutevole da una situazione all’altra, da persona a persona.
 
Nell’ambito della peace research, Ira Chermus ha fatto notare, riferendosi al contesto della politica americana, come molti ricercatori siano scettici rispetto all’uso che viene fatto del concetto di ordine e lo vedono come “una cortina politica innalzata per nascondere i veri scopi dell’elite: potere e ricchezza”.
 
Tale sentenza si sostiene dall’analisi del concetto di ordine nelle scienze sociali.
 
In sociologia l’idea di ordine è legata a quella di attore razionale, capace di compier scelte che massimizzano la felicità individuale e quindi quella globale di tutta la società. È la concezione equivalente a quella della mano invisibile nella teoria economica, che dovrebbe svolgere la funzione di massimizzare il bene comune attraverso il perseguimento del proprio interesse personale. Entrambe queste concezioni sono la conseguenza dell’applicazione del pensiero che si ispira alle teorie fisiche atomistiche applicato alla società considerata come l’insieme di un gran numero di individui separati, ciascuno dei quali si comporta liberamente come avviene in un gas di particelle che interagiscono tra loro. Ma contrariamente a quanto sostenevano i fautori illuministi di tali teorie, il sistema sociale, così concepito diventa molto meno prevedibile anziché prevedibile. La conseguenza di questo stato di cose è che l’elite dominante, convinta dell’importanza dell’ordine, tende a perseguirlo a qualsiasi costo, accrescendo il proprio potere di controllo. Non si riesce a sfuggire a questo dilemma, descritto anche da Michel Focault, sul potere e sul controllo sociale. Più cresce il disordine più l’elite tende a rafforzare e mantenere il proprio potere ad ogni costo, aumentando le iniquità. Le scienze sociali tradizionali tendono ad offrire un valido aiuto per giustificare questo sforzo e contribuiscono a rendere invisibili gli effetti negativi provocati dal potere e dalla concezione di pace come ordine sociale prevedibile. Nessuno di questi approcci teorici tradizionali è in grado di risolvere il problema fondamentale: la ricerca dell’ordine a tutti costi è intrinsecamente autodistruttiva.
 
Una società che si proponga di combattere il disordine è destinata a fallire: il desiderio di ordine aumenta la paura del disordine e crea una continua ricerca dell’evidenza del disordine perché ogni indizio costituisce una minaccia potenziale. Ciò contribuisce a creare la paura di fantasmi presenti ovunque che cambiano di volta in volta dall’impero del male, al comunismo o al terrorismo. Ma come è ampiamente noto da vari studi delle scienze naturali, i sistemi dinamici sono caratterizzati soprattutto dalla presenza dell’instabilità, il che vale a maggior ragione per i sistemi sociali. In una società dedicata alla ricerca dell’ordine, ogni “altro” è inevitabilmente visto come una potenziale sorgente di disordine e quindi come nemico.
 
Dopo aver analizzato le conseguenze sul piano sociale dell’ applicazione politica di una concezione di pace intesa come ordine sociale prevedibile e dopo averne accertato i limiti legati alla presenza sia della violenza diretta, che di quella strutturale, è ora necessario proporre una visione di pace alternativa che possa garantire lo sviluppo di una società aperta.
 
La società aperta può essere vista come un insieme di gruppi sociali che pur essendo ben radicati alle proprie radici culturali si dimostrano accoglienti verso ciò che è diverso dai propri schemi di rappresentazione della realtà, vivendo il contatto con la diversità come un occasione di sviluppo piuttosto che come una possibile fonte di minaccia. Prima di analizzare da un punto di vista psicologico l’individuo della società aperta, ritengo sia utile analizzare il contributo della peace research in particolare quello offerto da J. Galtung e quello offerto da Ira Chermus, nel loro studio sul concetto di pace.
 
 
Galtung utilizza una metafora per spiegare la sua concezione di pace, sostenendo che “la pace ha a che fare con l’entropia” . A partire da questa affermazione egli costruisce una sorta di formula generale per far crescere la pace: aumentare l’entropia sociale mondiale per esempio aumentando il disordine , la confusione, la casualità, l’imprevedibilità e evitando i tagli netti, le schematizzazioni semplicistiche, l’altamente prevedibile, l’ordine eccessivo.
 
 
Il concetto di entropia viene utilizzato da Galtung nel suo significato puramente statistico di disordine legato ad una condizione di massima diversità del sistema. Nei sistemi ecologici esistenti in natura si osserva che la massima diversità comporta anche una maggiore stabilità del sistema e una maggiore capacità di resistere a calamità esterne. Questa affermazione si giustifica considerando che molti studiosi di peace research fanno uso di modelli sistemici per descrivere i fenomeni legati alla pace. La pace è un oggetto concettuale altamente complesso; la sua interpretazione e comprensione può avvenire solo mettendo in relazione i molteplici punti di vista legati ai molteplici sistemi di interpretazione della realtà. Questa rete teorica rappresenta una complessità disorganizzata che permette lo studio di un fenomeno complesso come quello sociale. Lo stesso Galtung, parlando della sua metafora che lega la pace all’entropia, sottolinea l’imperfezione del suo isomorfismo. Egli sostiene che l’unico isomorfismo perfetto è l’auto mappatura, che non serve come strumento euristico per generare nuove ipotesi: una metafora non può essere vera o falsa, ma soltanto utile (in quanto permette di penetrare nel problema) o inutile. Czeslaw Mesjasz in un ampio saggio monografico ha suggerito come la teoria del caos e il nuovo paradigma della complessità riferito ai sistemi autopoietici, o autorganizzati, possono offrire nuovi spunti alla peace research. La scoperta del caos stabile o deterministico indica la possibilità di esistenza di fenomeni che possono dare turbolenza e stabilità allo stesso tempo. Il caos stabile non è sinonimo di disordine, nella sua accezione negativa derivata dal senso del linguaggio comune. Nello studio dei fenomeni caotici si possono trovare dapprima strutture ordinate, dalle quali sorgono fenomeni casuali, e poco dopo saranno questi stessi fenomeni casuali ad evolvere mettendo in evidenza la presenza di strutture sottostanti di tipo ordinato.
 
A partire da questa chiave interpretativa, Ira Chermus osservando come la natura sia un caos stabile, suggerisce di parlare di pace come imitazione della natura. La pace si configura come un flusso ininterrotto di processi sociali, o della stessa natura umana. Questa, aggiunge l’autrice, è un’ idea molto antica, ma la teoria del caos permette di tradurla in termini scientifici e può anche consentire di andare oltre questa concezione, vedendo la natura e la società inerentemente pacifiche non perché ordinate, ma perché cariche di disordine.
 
 
Si può parlare di pace come di un flusso ininterrotto di strutture casualmente ordinate che si replicano ad ogni livello dell’interazione umana, dalla famiglia nucleare alla famiglia delle nazioni. Come osserva a conclusione del suo saggio Ira Chermus, il contributo teorico di Ghandi ben si lega alla concezione di pace intesa come disordine. Il metodo del satyagraha da lui sviluppato e praticato si presenta infatti come una modalità per permettere il dispiegarsi della verità. La verità di cui parla Ghandi non è altro che la realtà continuamente mutevole che si realizza indipendentemente dal controllo dell’uomo. Ghandi non parla di un modello di pace sociale da perseguire; l’uomo di pace è in continua ricerca di un oggetto che di per sé non è conoscibile, per questo è caratterizzato da uno spirito di apertura radicale verso l’imprevedibile. L’ordine ideale implicito nella nonviolenza di Ghandi è quindi non una stasi prevedibile ma un processo di cambiamento senza fine, una fusione di centramento e di decentramento, e una costante crescita verso un ordine di verità che cambia continuamente.
 
Abrahm Maslow psicologo sostenitore della psicologia dell’essere offre un importante contributo nell’esplorazione dei concetti di ordine e disordine riferiti alla persona umana. Il valore dell’ordine inteso come il valore più alto riflette non la natura umana, ma una paura appresa nei confronti del cambiamento e della crescita. Una personalità di pace si costruisce interiorizzando il senso di sicurezza che permette di affrontare in modo positivo e senza paura i cambiamenti del mondo esterno. Coloro che hanno bisogni di sicurezza non appagati si aggrappano all’ordine e a forme rigide di paura per tentare di evitare il cambiamento e ogni novità imprevedibile. Una persona poco sicura di sé sarà portata a vivere la novità o la diversità, intesa come elemento nuovo che si affaccia ad uno schema di interpretazione insicuro, come una minaccia perché incomprensibile ad una visione poco elastica. D’altra parte, continua Maslow; le persone che sono state capaci di autorealizzarsi sono più aperte all’imprevisto e hanno meno bisogno di un ordine rigido. Esse hanno meno paura, minor bisogno di difesa e di controllo perché il loro senso dell’ordine deriva da una coerenza interna che può accettare un alto grado di disordine. Parlando di pace in termini di ordine, rafforziamo nell’individuo la paura del cambiamento e cercheremo inevitabilmente di imporre agli altri la nostra rigida concezione di ordine perché tentiamo di imporla a noi stessi.
 
L’individuo di una società chiusa è insicuro e si adagia alla visione di ordine imposta dal potere politico. Con una similitudine si potrebbe dire che l’individuo poco convinto della propria bellezza decide di indossare una maschera offertagli da una classe dirigente. Questa maschera lo fa sentire certamente più sicuro di sé, ma non gli permette di poter osservare la realtà nella sua totalità fatta anche di elementi non visibili perché fuori dall’ordine imposto dalla maschera. Allora tutto ciò che non è osservabile secondo lo sguardo della maschera si pone come non conosciuto, misterioso e quindi potenzialmente offensivo.
 
Una società sana riesce a mantenere nel giusto equilibrio un’apertura all’imprevisto con un senso di ordine che deriva dai bisogni personali genuini, non dalla paura culturale del disordine.
 
Nella nostra cultura si pone quindi come necessario un recupero della spontaneità, della capacità di essere espressivi, sperimentando varie forme di interazione con l’ambiente e con gli altri uomini libere dal forte condizionamento cultuale al quale siamo sottoposti. In altre parole l’uomo aperto deve essere autonomo e responsabile fiducioso del proprio processo di autorealizzazione, sicuro ed in pace con sé stesso. L’uomo in pace con sé stesso costruisce ed alimenta una società di pace, e questo processo non è tanto spiegabile facendo riferimento alle teorie atomiste (vedi sopra), piuttosto considerando lo spirito di apertura di chi dal contatto con il prossimo non ha nulla da temere. Da questo punto di vista la pace si comprende meglio come uno sforzo per accettare l’imprevedibile e il disordine così come l’esperienza ordinata della vita, il che è possibile quando si trascende il conflitto tra ordine e disordine.

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Dott. Nicola Santopadre

Psicologo Psicoterapeuta 
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